
Man Ray a Villa Manin
“Per esprimere meglio un’idea è necessario possedere un certo disprezzo per il materiale usato”.
Man Ray
Fino a Gennaio del prossimo anno resterà aperta a Villa Manin di Codroipo, nell’udinese, la mostra su Man Ray legata alla grande affluenza, di pubblico della precedente mostra sul fotografo Capa, della quale si tenta di bissare il successo, ma troppo fine è la mente dell’ebreo russo, nato in Filadelfia, per essere paragonata al reporter di guerra Capa. E quindi il suo sarà un futuro di mostra non popolare, purtroppo. Ancora oggi ci sono i suoi “oggetti d’affezione”, qui passati come oggetti pop, in quanto originati all’interno del movimento Dada americano, anzi newyorkese, cui si sarebbero richiamati in seguito gli artisti Pop degli anni cinquanta/sessanta, definiti dai critici quali “neodada”. Ma veniamo a Man Ray, natura inquieta e curiosa, che lascia una borsa di studio per dedicarsi ai più svariati lavori nel Village di New York sino all’incontro con l’Armory Show, esposizione che portava in America tutta la giovane avanguardia parigina, fino al Nudo che scende le scale del 1911 di Duchamp. Costui approda a N.Y. nel 1916 e incontra Man Ray e, pur parlando l’uno il francese e l’altro l’inglese, dice Man Ray: “Quando vidi i suoi lavori, capii che eravamo nelle stesse corde e fu amicizia per tutta la vita”. Duchamp, sotto pseudonimo di Richard Mutt, presentò nel 1917 la sua Fontana (un pisciatoio da strada rovesciato) che venne respinta ed alla quale segui una polemica del Duchamp, non tanto per l’opera in sé, quanto per il principio che lo statuto della mostra diceva che si potevano presentare opere eseguite con qualsiasi tecnica e forma. Partito per la Francia, Duchamp viene seguito dal giovane amico Man Ray che si stabilirà a Parigi seguendo la corte di Tristan Tzara, capo dei dadaisti, e qui sperimenterà strade nuove; anzi le sperimentazioni sue non si possono definire “eclettismo”, come viene presentato nel foglio della mostra pordenonese, perché non succedeva no, né seguivano alcun precedente artistico se non quello di essere invenzioni del momento. Uno dei “crucci” del Dadaismo europeo rappresentato da Jean Arp, affine artisticamente per certi versi a Man Ray, fu proprio quello della necessità di un oggetto artistico che si potesse definire quale arte; cosa che nel Futurismo scompariva sul piano della dialettica poetica mentre restava in pittura e così per il Cubismo. Diversamente, per il Dadaismo, con il suo germe distruttore, c’era la necessità di un casus belli, cioè di un oggetto che assumesse le “nuove caratteristiche” di oggetto d’arte da loro rappresentato. E qui Man Ray, tra “oggetti d’affezione”, plaquette metalliche, maschere, objet trouvé, cassette, paralumi, grucce ect. seppe ridare ad essi nuova vita attraverso diversi utilizzi non utili, da cui originarono, poi, le sculture di Calder con i suoi Mobil, o anche le Macchine Celibi cioè quegli aggeggi costruiti senza scopo se non quello di esistere quali riflessi di un pensiero a volte surreale, come nel caso dell’Enigma di Isidore Ducasse, ovvero il Conte di Lautréamont dei Canti di Maldoror, che avvinse l’artista Christo Yavachev con le sue coperture dei monumenti. Dando così la stura ad un passaggio obbligato fra l’arte distruttrice del Dadaismo a quella Surrealista propugnata dalla poesia di Louis Aragon, di Paul Eluard e dalla mente psicanalitica di André Breton. Man Ray, fotografo di tutti questi gruppi di artisti, diventa il loro fotografo ufficiale, inoltre si lega alla moda grazie alle frequentazioni parigine di quelle creature senza terra come la Gertrude Stein, la marchesa Casati, o altre figure perdute nel vortice della Belle Epoque parigina. Inventerà per caso la fotografia a contatto che battezzerà Rayogramma, e nella foto di moda, che frequenterà con Coco Chanel, Elsa Schiapparelli e altri, porterà il vento dell’arte sia nella posa che nel calcolo delle luci. La mostra ci dà un resoconto da amatore di questo piccolo genietto ebreo senza i tic alla Woody Allen, ma con un sorriso europeo. E bello vederlo nel docufilm che racconta la sua vita con sigaro e basco in testa come un vecchietto della Spagna del Nord. Belli i suoi film. Astratto l’uno cui guarderà il giovane trentenne Tinto Brass, mentre nel rendere in film il poema surrealista di Robert Desnos egli si servirà di un filtro di vetro non liscio che darà alla pellicola un movimento acquoso, cioè come se operasse con un obiettivo bagnato continuamente dalla pioggia e quindi non preciso nell’immagine. Grande la sua Kiki de Montparnasse modella riconosciuta e sua amica per anni. La sua pittura è innovativa in quanto proveniente dal disegno tecnico e dalla pura sperimentazione , senza precedenti di tipo impressionista o espressionista.
E’ semplicemente nuova e quindi ingiudicabile se non per se stessa. L’unica cosa che si può dire è che è vicina ad alcune sperimentazioni di Francis Picabia, di cui era amico e conoscente. La biografia suddivisa per donne si palesa come tema di fondo della mostra, e così pure la sezione, forzata, riguardante un’ immaginaria sessualità che sfocia in opere erotiche. Direi non tipica di Man Ray, mentre poteva appartenere all’amico Duchamp, erotomane per eccellenza, sia mentale che fisico: dal Nudo che scende le scale a “Etant Donnés” dove si guarda il nudo di donna attraverso il buco della chiave posto nella porta che nasconde tutta la figura femminile. Man Ray era un viveur, un amante gioioso della vita. Così lo descrive l’amico Marcel Duchamp: Man Ray, n.m. synon. de Joie jouer jouir. E così lo vogliamo ricordare.
Buona Visione.
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